La Prima guerra mondiale è stata spesso rappresentata, dai contemporanei e dagli storici, come la ‘Urkatastrophe’ del XX secolo, o come «apocalisse della modernità». Prima del 1914, la letteratura «profetica» sull’avvento di un cataclisma che avrebbe sconvolto gli assetti politici e sociali faceva il paio con la diffusa attesa di un grande conflitto che avrebbe rigenerato le stanche società europee, applicando alla storia delle nazioni gli assunti di massima del darwinismo sociale. Non sorprende allora che, quando scoppiò, la guerra fosse diffusamente percepita come un’apocalisse, nel bene e nel male: il suicidio terminale della migliore delle civiltà possibili (come avrebbe scritto Freud) o la straordinaria occasione di inizio di una nuova era, secondo gli entusiastici slogan di una vasta galassia di pubblicisti, artisti, giovani. Molti di costoro avrebbero ben presto subito la traumatica esperienza di una guerra ben diversa dalle aspettative. La maggior parte degli intellettuali e degli artisti che sperimentarono la vita al fronte vissero una profonda disillusione: tra i sopravvissuti, alcuni si convertirono a posizioni radicalmente pacifiste, o rivoluzionarie. La «guerra come apocalisse» fu una pratica discorsiva straordinariamente diffusa tra chi la guerra la invocò, e tra coloro che partirono per viverla. Fu, naturalmente, al centro del discorso religioso del 1914-1918 (della Chiesa cattolica, che sul tema della guerra ‘giusta’ o ‘inutile’ rivelò la sua natura composita, così come delle chiese protestanti) e fu un efficace atout retorico nel vocabolario delle classi dirigenti di tutte le parti in causa.
La Prima guerra mondiale è stata spesso rappresentata, dai contemporanei e dagli storici, come la ‘Urkatastrophe’ del XX secolo, o come «apocalisse della modernità». Prima del 1914, la letteratura «profetica» sull’avvento di un cataclisma che avrebbe sconvolto gli assetti politici e sociali faceva il paio con la diffusa attesa di un grande conflitto che avrebbe rigenerato le stanche società europee, applicando alla storia delle nazioni gli assunti di massima del darwinismo sociale. Non sorprende allora che, quando scoppiò, la guerra fosse diffusamente percepita come un’apocalisse, nel bene e nel male: il suicidio terminale della migliore delle civiltà possibili (come avrebbe scritto Freud) o la straordinaria occasione di inizio di una nuova era, secondo gli entusiastici slogan di una vasta galassia di pubblicisti, artisti, giovani. Molti di costoro avrebbero ben presto subito la traumatica esperienza di una guerra ben diversa dalle aspettative. La maggior parte degli intellettuali e degli artisti che sperimentarono la vita al fronte vissero una profonda disillusione: tra i sopravvissuti, alcuni si convertirono a posizioni radicalmente pacifiste, o rivoluzionarie. La «guerra come apocalisse» fu una pratica discorsiva straordinariamente diffusa tra chi la guerra la invocò, e tra coloro che partirono per viverla. Fu, naturalmente, al centro del discorso religioso del 1914-1918 (della Chiesa cattolica, che sul tema della guerra ‘giusta’ o ‘inutile’ rivelò la sua natura composita, così come delle chiese protestanti) e fu un efficace atout retorico nel vocabolario delle classi dirigenti di tutte le parti in causa.