«Chi d’esso loco fa parole, / non dica Ascesi, ché direbbe corto, / ma Orïente, se proprio dir vuole». I versi del Paradiso dantesco che nominano Assisi, in cui «nacque al mondo un sole» chiamato Francesco, suonano come un pronostico, se letti nel contesto del libretto amorosissimo di Cheng. Qui Oriente e Occidente, tradizione taoista e cristianità scoprono la loro comunione grazie all’universalità del santo più venerato. A testimoniarla, in una scrittura tersa che ha la chiarità delle estati umbre, è un migrante giunto in Francia dalla Cina. Adesso è una gloria letteraria nella terra che l’ha accolto, ma quando vide per la prima volta Assisi, nel 1961, non era che un giovane esule in preda allo spaesamento. Di quell’incontro inaspettatamente abbagliante con i luoghi francescani volle serbare per sempre memoria iscrivendolo nel suo stesso nome: all’atto della naturalizzazione francese, dieci anni dopo, scelse François al posto del cinese Chi-hsien, «celebrante la saggezza». Origini e approdi si pongono così per lui sotto il segno di una segreta alleanza, di cui Francesco diventa l’emblema. Se ne cercherebbe invano, in queste pagine, l’immagine agiografica tutta mansuetudine e candore. «Il Grande Vivente», lo chiama Cheng, e ne avverte la presenza di «eterno contemporaneo» soprattutto tra le rocce incorruttibili che gli fecero da giaciglio. All’intellettuale cinese istruito nella geomantica del Tao, l’antica arte di decifrare l’energia dei paesaggi, la topografia della santità – l’Eremo delle Carceri, la Porziuncola, San Damiano – manifesta subito il proprio corpo vivo e pulsante. «Ecco il luogo, il mio luogo! È qui che il mio esilio avrà fine!»
«Chi d’esso loco fa parole, / non dica Ascesi, ché direbbe corto, / ma Orïente, se proprio dir vuole». I versi del Paradiso dantesco che nominano Assisi, in cui «nacque al mondo un sole» chiamato Francesco, suonano come un pronostico, se letti nel contesto del libretto amorosissimo di Cheng. Qui Oriente e Occidente, tradizione taoista e cristianità scoprono la loro comunione grazie all’universalità del santo più venerato. A testimoniarla, in una scrittura tersa che ha la chiarità delle estati umbre, è un migrante giunto in Francia dalla Cina. Adesso è una gloria letteraria nella terra che l’ha accolto, ma quando vide per la prima volta Assisi, nel 1961, non era che un giovane esule in preda allo spaesamento. Di quell’incontro inaspettatamente abbagliante con i luoghi francescani volle serbare per sempre memoria iscrivendolo nel suo stesso nome: all’atto della naturalizzazione francese, dieci anni dopo, scelse François al posto del cinese Chi-hsien, «celebrante la saggezza». Origini e approdi si pongono così per lui sotto il segno di una segreta alleanza, di cui Francesco diventa l’emblema. Se ne cercherebbe invano, in queste pagine, l’immagine agiografica tutta mansuetudine e candore. «Il Grande Vivente», lo chiama Cheng, e ne avverte la presenza di «eterno contemporaneo» soprattutto tra le rocce incorruttibili che gli fecero da giaciglio. All’intellettuale cinese istruito nella geomantica del Tao, l’antica arte di decifrare l’energia dei paesaggi, la topografia della santità – l’Eremo delle Carceri, la Porziuncola, San Damiano – manifesta subito il proprio corpo vivo e pulsante. «Ecco il luogo, il mio luogo! È qui che il mio esilio avrà fine!»